In molti – forse in troppi – considerano il bianconero una tecnica fotografica vecchia, triste, che lascia indifferenti.

E’ troppo più facile impressionare amici e parenti con scintillanti foto a colori, magari saturate oltre misura, rese in stile vintage o elaborate col “look cinematico“.

Ovviamente ho iniziato a scattare a colori, ma nei primissimi anni Novanta sono stato contagiato dalla dimensione del fotografare dove i colori non esistono.

E questo è stato possibile perché ho iniziato a frequentare i Fotoclub di Montecatini e Pistoia, dove di bianconero fatto bene se ne vedeva e come.

Non ho iniziato a fare foto senza colori perché era un segno di distinzione, ma perché apriva nuove porte verso molte direzioni, dove era più bello trovare una tua dimensione.

Arriva il momento in cui ti rendi conto che eliminare i colori in molti casi è un vantaggio.

A volte i colori ti aiutano, quando sono belli, ben abbinati e resi nella giusta tonalità, e magari un pò più saturi del dovuto, che in fin dei conti non guasta mai.

Però se ci pensi bene capisci che non sono solo i colori che fanno le belle foto, o semplicemente le foto.

Ci sono le luci, le ombre e le forme, che possono essere ancora più importanti.

Però devi vederle: il tuo occhio si deve abituare a percepire le zone di luce e le zone di ombra, deve essere allenato a vedere le forme laddove gli altri guardano con indifferenza.

Per poterlo fare devi prima abituarti a “studiare” la composizione delle foto che vedi, capire quello che serve e quello che non serve, e con tali principi iniziare a creare le tue composizioni. Inizialmente puoi lavorare a livello di inquadratura di quello che hai di fronte, e successivamente creando tu stesso la tua composizione, a seconda del genere fotografico al quale ti dedichi.

Il bello comunque inizia dopo che la foto è stata scattata.

Dove il colore finisce, il bianconero inizia

Non parliamo di adesso, di fotografia digitale, ma di quando si scattava con la pellicola.

Quando scatti a colori torni a casa togli il rullino dalla macchina fotografica per portarlo dal fotografo, per lo sviluppo. Attendi poi qualche giorno e le foto (o le diapositive) sviluppate ti vengono consegnate. Lì non finisce tutto, ma quasi. Puoi sceglierne qualcuna e farla ingrandire, magari in certi casi chiedendo che venga tolta una dominante colore oppure aggiunta una certa intonazione. E lì finisce davvero tutto.

Quando scatti in bianconero il tuo rullino non vedrà mai il fotografo. Vedrà te, talvolta anche per troppo tempo, e ti obbligherà a dedicargli cure e lavoro per restituirti alcune stampe, di solito ingrandite.

Sì, perché il bello del bianco e nero non si esaurisce con lo scatto, ma te lo porti a casa e continua in camera oscura. O qualcuno sta ancora pensando che si possa far sviluppare il bianconero in laboratorio?

Il “lavoro” poteva iniziare anche dalla scelta della pellicola, se avevi idee precise di quello che avresti fotografato. Potevi optare per una pellicola ben incisa e leggermente contrastata come il Kodak T-Max 100 ASA, oppure se volevi qualcosa di più normale la Ilford FP4 125 ASA. Se volevi attenuare il contrasto potevi passare al 400 ASA, e allora Kodak ti offriva il T-Max 400 e Ilford la HP5. Oppure potevi prevedere un rivelatore più leggero in fase di sviluppo del negativo, o la stampa su una carta di gradazione 2 anziché 3.

Naturalmente non giocavi sul contrasto, ma anche sulla esposizione della carta sotto l’ingranditore. Se il soggetto ripreso lo permetteva e se avevi un minimo di competenza in più potevi giocare – sempre sotto l’ingranditore – con le mascherature (per rendere più chiare le parti scure) o le bruciature (per rendere più scure le parti chiare).

Alla fine della storia, dopo che avevi provveduto a passare la foto sviluppata dalla bacinella dello sviluppo a quella dell’arresto e poi a quella del fissaggio, e dopo averla risciacquata abbondantemente e fatta asciugare, avevi ottenuto quello che volevi… O quasi.

Sì, perché ogni ultima stampa fatta è una ripartenza per la successiva. Devi essere critico e cercare di capire cosa non va bene e come migliorarlo.

Il bello però era che tutto questo lo sapevi ancora prima di inziare a scattare in bianconero!

Se come me frequentavi almeno un fotoclub o avevi amici che già stampavano in bianconero, potevi sapere fin dall’inizio cosa ti saresti trovato di fronte. Non ci si ritrovava ad allestire una camera oscura nella propria soffitta o nel proprio bagno per caso. La svolta verso il bianconero delle fatiche era sicuramente ben ponderata. Ti veniva detto quello che avresti ottenuto, che avresti avuto un controllo molto vasto sulla stampa finale, ma anche che avresti faticato molto per ottenere le prime stampe appena passabili, e moltissimo per arrivare alla prima stampa ottima. Ma se tu eri andato avanti nel discorso, significava che dentro di te avevi già deciso. Mancava solo di stabilire il “quando”, perché avevi capito che nel bianconero avresti trovato una forma di espressione superiore a quella che il colore ti poteva dare.

Tutto questo, almeno fino all’avvento di Photoshop e simili, delle fotocamere digitali di buona qualità e degli scatti in formato RAW. A partire da quel momento anche gli incalliti del colore avrebbero avuto la loro camera oscura a casa, solo che non stavano al buio – e spesso al freddo – di una soffitta, non passavano il tempo ad agitare la tank o la bacinella dello sviluppo, non consumavano ettolitri d’acqua per il risciacquo, ma se ne stavano comodamente seduti davanti al computer.

In tutto questo percorso ho avuto un grande aiuto dal compianto amico Alberto Goiorani, che mi ha risparmiato un bel pò di metri di pellicola buttata e di metri quadrati di carta fotografica finita nel cestino della camera oscura. Grazie Alberto.